Parlando dei concerto dei Blonde Redhead visto ieri sera al Rolling Stone di Milano, è necessaria una premessa: ogni volta in vita mia che sono andato a vedere un gruppo del quale non avevo mai sentito niente, non mi sono divertito.

Fortunatamente, da ieri sera non posso più dirlo.

Ma andiamo con ordine: sono arrivato circa un’ora prima dell’inizio del concerto davanti al RS, e la prima cosa che ho notato è stata il classico pubblico composto in prevalenza da musicisti. Per fortuna ero in buona compagnia e quindi solo raramente mozziconi di frasi quali “…e adesso abbiamo deciso di provare con due batterie perché Giampi da solo non regge…” oppure “…si ho spedito il materiale alle etichetta ma non ho ancora avuto una risposta…” sono riuscite a superare le mie orecchie per arrivare fino alla corteccia cerebrale. Il pubblico di musicisti è di solito segno certo di una band che dal vivo performa bene, e questo mi ha ben predisposto da subito. Il panino più cattivo del mondo e le chiacchere con la mia amica mi hanno aiutato ad arrivare vivo e leggermente “up” all’ora del gig. Avrei voluto sentire anche il gruppo guest, ma l’arietta fuori era dolce e soprattutto potevo fumare una sigaretta dietro l’altra, per cui niente guest. Dite loro di ringraziare Sirchia e questa rivoltante ondata puritana antifumo.

Con i tre musicisti della band l’impatto è positivo già dal loro apparire sul palco. Il loro look è perfettamente in carattere con le luci raffinate ed efficaci senza strafare. Niente di appariscente, ma una certa classe vagamente noncurante, come è lecito aspettarsi da anti-star provenienti dalla capitale del mondo.

Entrano, imbracciano gli strumenti e cominciano a suonare. E qui cominciano, almeno per me, le sorprese. Attacca la chitarra da sola ed i suoni sono stupendi, l’arpeggio ossessivo mi cattura immediatamente e da quel momento i nostri bellimbusti faranno di me quello che vogliono per tutta l’ora successiva. Quando, dopo pochi secondi dall’attacco, tutta la band entra con potenza e decisione nell’inciso del brano sento la buona vecchia magia compiersi ancora una volta: brividi in tutto il corpo e lacrime agli occhi. L’ultima volta mi era successo con i dEUS a Ferrara, l’estate scorsa, ed è una sensazione che merita senza dubbio di stare nella lista virtuale dei dieci buoni motivi per vivere (il capolista è che l’alternativa è morire).

Ho amato molte cose dei Blonde Redhead ieri notte, quella fondamentale è anche quella purtroppo meno diffusa: questi ragazzi sanno scrivere canzoni.

In un mondo funestato da gente (cito a memoria parole di Julian Cope) convinta che scrivere una canzone significhi trovare una melodia su degli accordi, arrangiarla e scriverci un testo, incontrare gente come Blonde Redhead è come trovare una pepita d’oro nel proprio setaccio. Alla fine del primo inciso del primo brano ero già emozionato come un ragazzino. Melodie potenti, incredibilmente efficaci ma senza nulla concedere alla banalità. Quasi tutti i brani sembrano fatti apposta per entrare in testa e non uscirne mai più, e lo stile compositivo è veramente personale ed emozionante. I riferimenti sono parecchi, ma tutti evidentemente ben digeriti ed al servizio di un songwriting che resta sempre definito e riconoscibile. Ed è divertente sentire unirsi e sposarsi alla perfezione riferimenti cosi’ diversi quali Morricone, Massive Attack e Sonic Youth. In loro è forte una vena a tratti quasi sinfonica, con grandi aperture strumentali estremamente melodiche al limite dello sfacciato, ma sempre corrette da qualche piccola stranezza che emoziona, in quanto chiaramente uscita dalla loro pancia più che dalle loro testoline. Il tutto senza alcun autocompiacimento negli arrangiamenti: niente code strumentali o spazi di improvvisazione. I brani sono piccoli orologi perfettamente congegnati, senza perdere in spontaneità. Chissa’ quanti di quelli presenti ieri si sono resi conti di avere a che fare con un gruppo fondamentalmente pop…

Strepitoso anche l’utilizzo delle basi. In barba alle paranoie da live “puro” così’ tipiche dell’impostazione rockettara, i Blonde Redhead giocano con le loro basi in modo sfacciato, a volte doppiando la voce di lei o sparando chitarre devastanti mentre sul palco nessuno sta imbracciando una chitarra. Niente musicisti nascosti sotto il palco o basi utilizzate quasi di nascosto per pudore, ma un utilizzo intelligente grazie al quali le basi stesse diventano semplicemente un ulteriore, efficacissimo, elemento dello spettacolo.

Dal punto di vista tecnico, grazie a dio ed alla cultura punk, nessuno di loro è un virtuoso dello strumento, ma suonano restando sempre all’interno dei propri limiti e con una compattezza invidiabile. Kazu Mankino non ha una voce molto potente bensì una di quelle voci fatte apposta per fare impazzire i fonici e mandare in feedback i monitor, ma la usa molto bene e, se è lei a trovarsi i cantati, meriterebbe un monumento in bronzo nelle principali piazze di ogni città del mondo. Suona alternativamente basso, chitarra elettrica e tastiere, e quando suona si fa sentire. Amedeo Pace si alterna alla chitarra ed al basso. Ha uno stile molto personale, vagamente noisy ma senza strafare, e quando decide di essere veramente melodico mi fa venire voglia di salire sul palco e cercare di baciarlo tra lo sbigottimento degli astanti. Poche note il più delle volte, ma sempre quelle giuste. Canta circa un terzo dei brani, forse meno, con una voce acuta e molto particolare, e canta con sicurezza e pathos. Simone Pace sta dietro la batteria con piglio deciso e si sente che ha la testa molto più da musicista che da batterista. Ha il senso della canzone e, pur senza inventare niente di particolare, riesce sempre a fare decollare i brani. Tra l’altro, visto l’utilizzo di basi, ha sicuramente negli ear monitor un enorme click da seguire, ma riesce puntualmente a farmelo dimenticare suonando senza alcuna rigidita’ formale. Il loro atteggiamento sul palco è sempre all’insegna di un certo understatement, nessun atteggiamento divistico o esibizionistico. Ma nei punti in cui la musica è più coinvolgente sono ben contenti di lasciarsi coinvolgere, e nei rari momenti in cui si dimenano insieme sotto il pulsare di uno stacco potente, guardarli è un piacere ed una vera emozione.

Suonano circa un’ora, poi si lasciano richiamare due volte sul palco per due bis. E nonostante io stia morendo di caldo e sia stanco mi ritrovo a richiamarli a gran voce e fischiando come un pecoraio sardo. All’uscita sono felice e sbattuto come un ovetto, le orecchie ancora piene di note colorate ed emozionanti. I commenti del flusso di astanti sono quasi tutti improntati all’entusiasmo, anche se capto un paio di classiche cagate da musicisti tipo “…si però avevano le basi…” oppure “…si però lei ha poca voce…”. Ma la maggior parte di quelli che escono nella notte calda hanno un’espressione dolce negli occhi come se si fossero appena svegliati da un bel sogno.

Non credevo avrei potuto emozionarmi tanto ascoltando un gruppo a me sconosciuto, e questa è per me la cosa più importante. Ora mi sto procurando tutta la discografia, ho un sacco di tempo perduto e di album dei Blonde Redhead da recuperare. Complimenti allo splendido gusto di chi me li ha sempre consigliati. Peccato per chi se li è lasciati sfuggire: spero solo che ne sia valsa la pena. Certi momenti non tornano più.

A notte fonda in autostrada, con gli occhi che mi si chiudevano, stavo ancora sorridendo